Il convegno milanese di ANRA, tenutosi alla Bicocca il 6 aprile scorso e intitolato “Dall’industria 4.0 all’IOT – come l’innovazione sta cambiando i rischi e l’insurance business”, merita alcune precisazioni; già a partire dalla terminologia del titolo, in cui la sigla “4.0” suona come sinonimo di generica innovazione tecnologica. In effetti la questione è assai più complessa. E la ridda di sigle numeriche alla moda – 2.0, 3.0, 4.0 e così via – rischia di confondere le idee e depistare i ragionamenti.
Di certo il termine “Industria 4.0” (o Industry 4.0) si riferisce a una tendenza dell’automazione industriale che integra alcune nuove tecnologie per migliorare le condizioni di lavoro, aumentando la resa e la qualità produttiva degli impianti. Ma – soprattutto – sta a indicare (senza troppo esplicitarne gli esiti) l’ulteriore ricorso a forme di automazione che riducono significativamente (e pesantemente) la presenza del fattore umano. Quel processo – già in corso e che è destinato a dilagare in futuro – di ricorrere in funzione sostitutiva al “lavoro morto” dei robot; un indirizzo che sta aggredendo persino le attività intellettuali favorendo l’espulsione degli addetti umani a tali funzioni. Già nel 2013 uno studio della Oxford Martin School indicava che il 47 per cento di tutti i posti di lavoro era suscettibile di automazione. E le categorie in assoluto più a rischio erano proprio gli impieghi amministrativi e le vendite. Lo studio prevedeva due ondate di informatizzazione nei prossimi vent’anni. Nella prima ondata, la sostituzione da “capitale informatico” riguarderebbe i settori dei trasporti e della logistica, insieme al grosso degli impiegati d’ufficio e di supporto amministrativo. Nella seconda, a essere robotizzati risulterebbero tutti quei lavori che si basano sulla destrezza manuale, l’osservazione, il controllo o il lavoro in spazi angusti. Sino a ieri si garantiva che a essere preservate dalla mattanza sarebbero state le funzioni che richiedono capacità di interazione e creatività. Già per quanto riguarda il primo aspetto sta arrivando una drastica smentita dalle auto senza guidatore che da alcuni anni stanno girando tranquillamente per le strade della California: il “progetto Chauffeur” di Google.
Ben diverso è il caso quando si parla di “Industria 2.0”, ossia la digitalizzazione applicata a prodotti e servizi: il Web 2.0 è l’espressione utilizzata spesso per indicare uno stato dell’evoluzione del World Wide Web, rispetto a una condizione precedente. Si definisce in tale modo l’interazione tra il sito web e l’utente e la messa in comunicazione tra utilizzatore e apparati, tra apparati e apparati. Insomma, la nuova frontiera dell’Internet delle cose è molto più 2.0 che non 4.0.
Sicché qui nessuno vuole fare il (neo)luddista. La tecnologia è – come sempre – un’opportunità irrinunciabile e l’innovazione funziona come la prima molla del progresso. Il problema – semmai – è quello di indirizzare le politiche innovative verso soluzioni che non presentino pericolose contro-indicazioni. Emarginare il fattore umano nelle percentuali che emergono da attendibili ricerche sembra una scelta foriera di profonde tensioni. A partire dai processi di impoverimento dello strato mediano della società che comportano. Tanto per dire, se togliamo il lavoro a così tante persone, dove troveranno le risorse per acquistare i prodotti realizzati dalle catene robotizzate? Nel nostro caso: le polizze andranno stipulate ancora con nostri consimili o dovremo inventarci un mercato popolato dalla prima specie aliena con cui noi umani siamo entrati in contatto? I robot antropomorfi.
Saverio Zavaglia
MODA & ASSICURAZIONI: L’equivoco 4.0: numero magico o minaccia post-industriale? – Saverio Zavaglia – psicologo della moda.
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