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Nella fattispecie, una donna che aveva contratto l’epatite C richiedeva un indennizzo ritenendo che l’infezione derivasse da un’emotrasfusione alla quale si era sottoposta presso un ospedale.
Secondo i giudici la prova del nesso causale tra trasfusione e contagio da virus dell’epatite si può basare su presunzioni solo se si dimostra l’idoneità della condotta a provocare il contagio e la struttura sanitaria non abbia predisposto o non abbia prodotto in giudizio la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso.
Secondo gli Ermellini, i quali ribadiscono un orientamento consolidato, il paziente che intenda ricevere l’indennizzo, riconosciuto dall’art. 1 comma 3 Legge n. 210/1992 in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti post-trasfusionali, deve, dunque, dimostrare di avere effettuato la terapia trasfusionale, il verificarsi del danno e il nesso causale tra i due fatti da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica.
Avv. Gian Carlo Soave.
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