Le startup, ovvero il mondo del nuovo e dell’innovazione per definizione, eppure in Italia, ca. il 95% delle startup non arrivano al successo o peggio falliscono per tutta una serie di motivi… non è comunque questo l’oggetto di questo articolo… e allora cosa? Il problema, infatti, sta ancora più a monte, cioè alla mentalità che sta dietro allo startupper.
Vediamo innanzitutto in Italia come siamo messi: l’Italia è nella 20.ma posizione in Europa nella classifica del numero delle startup innovative, siamo dietro persino a Malta (dato 2018).
Sono 10.630 le startup iscritte al Registro delle Imprese, in aumento dell’1,8% rispetto al dato di giugno e il valore della produzione ha sfiorato gli 1,2 miliardi di euro, ovvero una media di poco inferiore ai 113.000 € ad azienda (dati Mi.S.E., nov. 2019)… un po’ pochino? Traete voi le conclusioni.
C’è però un fattore di successo che sta attraversando l’universo startup internazionale che in Italia non sembriamo aver raccolto, ovvero unire le forze per il successo, scambiarsi idee e contribuire con le proprie conoscenze al successo di imprese con lo stesso interesse, aprire a idee e professionalità fuori dal proprio paese, avere visione internazionale… tutto questo ha un nome: Hub di cosa si tratta?
L’hub è uno spazio sia fisico che virtuale dove si intrecciano risorse per l’innovazione, spazi di co-working e la contaminazione idee tra i vari attori che vi partecipano con il fine di sviluppare nuove idee e nuova imprenditorialità.
Quanto sta accadendo in Europa in sostanza ci dice che i Paesi, i policy maker e gli operatori privati devono adoperarsi per favorire la concentrazione di capitali, idee e talenti in pochi hub selezionati. In Italia abbiamo senza dubbio Milano, attorno a cui ruota da sempre quel poco che abbiamo nel Paese di ecosistema delle startup e degli investitori. Un secondo polo importante lo diventerà nei prossimi anni la città di Roma, dove già da qualche anno insiste una buona filiera di investitori specializzati nel seed capital.
Queste iniziative, seppur rappresentino un primo passo importante, non vanno comunque nella direzione di quella che sembra essere la chiave del successo: concentrare i lavori in hub strutturati, ovvero unire le forze ed aprire all’internazionale, lavorare assieme ad uno scopo comune, scambiare esperienze con altri e far tesoro delle altrui esperienze… ma forse prima di questo dovremmo proprio imparare ad aprire ad altri… la nostra tendenza rimane quella del: “sono figo, ce la faccio da solo”.
Dal 2016 il tasso di “foreign-born founders”in Europa è cresciuto dal 23% al 29%. E il 40% di questi proviene da Paesi non europei. Le regioni che beneficiano maggiormente sono UK e Irlanda (+25%) come anche il Benelux (+18%) e l’area baltica (+18%). A parte Spagna (+29%) e Portogallo (+12%), il resto del Sud Europa perde founder (-9%), con picchi negativi – ahimè – dell’Italia (-20%) e del solito nostro compagno di disavventure che ci fa sentire un po’ meno soli, la Grecia (-39%).
I founder si muovono di più e si “internazionalizzano” velocemente: ben il 55% delle startup avvia degli uffici internazionali entro il primo anno di attività. E lavorano sempre più spesso insieme, in un ecosistema europeo che vede 6 top hub per fare startup: Londra, Berlino, Barcellona, Parigi e Lisbona, che congiuntamente raccolgono il 75,3% di tutti i founder in Europa, con tanto network grazie al quale si condividono capitali e talenti, strumenti indispensabili per lanciare il business delle startup.
Da noi le iniziative strutturate (fuori ad es. dall’ecosistema universitario) si contano sulla punta delle dita di una mano. Barcellona è uno snodo importante degli hub a sud dell’Europa, molto ben connessa per esempio sia con Madrid che Milano. Lisbona non risulta essere connessa direttamente con Milano, ma ha una forte relazione con Madrid. Complessivamente, gli hub del sud Europa potrebbero fare meglio, considerando che nel 2018 hanno attratto solo 1,8 miliardi di euro (7,82% di tutti i fondi investiti nei top 50 hub in Europa).
Altre “rotte” naturali di collegamento tra hub sono l’“Atlantic Triangle” (tra Londra, Lisbona e Dublino), la “FerryLink” tra Helsinki e Tallin (collegate da un traghetto di sole 2 ore con 6 partenze al giorno e nove voli giornalieri), il “Nordic Bypass” che collega gli hub più a nord (Londra, Berlino, Stoccolma, Helsinki, Tallin, Riga) e la “CEExpressway” tra Varsavia, Vienna, Budapest, Sofia e Praga verso Amsterdam, Berlino e Londra.
In tutta questa rete l’Italia è tristemente assente non solo non apriamo all’estero ma nemmeno a “menti” estere… solo il 29% delle nostre startup ha una visione internazionale e siamo dietro persino a paesi come la Grecia, il Portogallo e la Romania.
Come dire che nel momento in cui ci accorgeremo della tendenza sarà troppo tardi perché gli altri paesi saranno già 10 anni avanti a noi.
Non so dirvi il perché di questa tendenza, quasi sicuramente il tutto ha origini sociali e culturali e questo sarebbe già di per sé triste in quanto vorrebbe dire che siamo chiusi ad altre culture (mmm… mi ricorda qualcosa…) ma mi sento di dire che, una volta di più, stiamo dimostrando di copiare male e di ascoltare i segnali ancora peggio.
I.C.
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