Si segnala l’ordinanza n. 22530/2019 con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che non può essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità dal risarcimento del danno patrimoniale riconosciuto ai congiunti di un soggetto deceduto per colpa altrui.
La tutela previdenziale accordata dall’INPS non è, infatti, volta ad eliminare le conseguenze sul patrimonio del danneggiato a causa dell’illecito commesso da terzi, ma si fonda sul sacrificio compiuto dal de cuius quando era in vita.
Nel caso in esame un uomo, mentre si trovava al lavoro, era morto per un infarto.
Il medico alle dipendenze dell’azienda non aveva tempestivamente posto in essere quegli adempimenti che avrebbero potuto consentire alla vittima una possibilità di sopravvivenza.
Nel giudizio di merito veniva, quindi, riconosciuto ai congiunti il risarcimento dei danni non patrimoniali, ritenendo i pregiudizi economici assorbiti dall’avvenuta liquidazione della pensione di reversibilità.
Secondo gli Ermellini, invece, non opera la “compensatio lucri cum damno“: la pensione di reversibilità è una forma di tutela previdenziale in cui l’evento morte comporta una situazione di bisogno per i familiari del de cuius e “realizza la garanzia della continuità di sostentamento ai superstiti” interrotta dalla morte del congiunto.
Una cosa è, pertanto, l’illecito posto in essere dal terzo e le sue conseguenze sul patrimonio della vittima; altra cosa è la pensione di reversibilità che non ha finalità di indennizzo ma trova causa nel pregresso rapporto di lavoro, nei contributi versati e nella legge, in tutti quegli elementi, quindi, che si configurano come “serie causale indipendente rispetto alla circostanza che determina la morte”.
La Suprema Corte, quindi, in forza dei principi e delle argomentazioni esposti, ha cassato la sentenza con rinvio.
Avv. Patricia Russo
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