Il risk management fa bene all’impresa. Soprattutto quando arriva in CdA - Il Broker.it

Il risk management fa bene all’impresa. Soprattutto quando arriva in CdA

 

I risultati della VII edizione dell’Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese italiane. La ricerca, realizzata in collaborazione con l’Ufficio Studi di Mediobanca, è stata condotta su un campione di 315 aziende manifatturiere di proprietà italiana, in prevalenza operanti in ambito B2B, con 61 milioni di euro di fatturato medio e una base organica di 157 dipendenti

 

 

Le aziende italiane con performance economiche migliori sono quelle con i sistemi di gestione del rischio più evoluti: si tratta di imprese che vedono nel risk management una leva strategica per competere sul mercato, che portano il sistema di gestione del rischio all’interno dei CdA e che sono dotate di un Codice di autodisciplina. Sono alcune delle evidenze messe in luce dal VII Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese italiane, la ricerca annuale realizzata da Cineas in collaborazione con l’Ufficio Studi di Mediobanca e presentata in questi giorni.

 

Anche quest’anno la ricerca evidenzia che le aziende più attente alla gestione del rischio sono anche quelle che hanno performance migliori (+20% ROI rispetto alle aziende che non lo gestiscono) – commenta il Presidente di Cineas, Massimo Michaud  ma nel report 2019 abbiamo fatto un passo avanti rispetto a questa correlazione andando ad esaminare i comportamenti virtuosi all’interno delle aziende che dichiarano di gestire i rischi”. L’edizione del 2019 ha analizzato le risposte di 315 aziende manifatturiere attive nei settori: alimentare, beni per la persona e la casa, chimico farmaceutico, meccanico e metallurgico. Il fatturato medio delle aziende rispondenti è di 61 milioni di euro con 157 dipendenti.

 

PERCHE’ LE IMPRESE GESTISCONO I RISCHI?La locuzione gestione del rischio per le imprese vuol dire anzitutto ridurre frequenza e severità del danno (84,6% delle imprese), definizione che si sposa con l’esigenza di tutelare l’integrità del business. Resta rilevante la quota di imprese che vivono passivamente questo obiettivo, considerandolo come il fatto di dotarsi di una copertura assicurativa (39,5% delle imprese) per cui gestire il rischio significa trasferirlo, oppure meramente l’ottemperanza ad obblighi di legge (27,3% delle imprese). Resta marginale la quota di imprese che vede nella gestione del rischio una leva competitiva, ovvero uno strumento da utilizzare in maniera proattiva al fine di raggiungere un migliore posizionamento rispetto ai propri competitor (12,9%). È suggestivo però che questo piccolo gruppo di aziende realizzi performance economiche apprezzabilmente migliori: roi al 10,3% rispetto al 7,8% delle altre; export: 55,3% vs 46%.

RISK GOVRNANCE: BEN OLTRE LA MAPPATURA DEI RISCHI. Ma quali sono le principali attività espletate nel funzionamento del sistema di gestione del rischio? La mappatura dei rischi emerge quale azione più diffusamente intrapresa, interessando 49,3% delle imprese. In effetti, si tratta dell’azione più immediata, ma è solo il primo passo nella costruzione di un sistema di gestione del rischio. La rilevazione ex-post dei rischi e degli eventuali incidenti avvenuti viene sviluppata solo dal 39,9% delle imprese. Man mano poi che si fa riferimento ad attività più evolute legate alla “governance del rischio”, la platea delle imprese si fa ancora più esigua: è il caso del coinvolgimento di una figura professionale (tipicamente il risk manager il quale provvede alla sintesi delle evidenze) che si riscontra solo nel 17,9% del campione, fino a quella più avanzata che contempla la discussione dei rischi in CdA che riguarda solo l’11,8% delle imprese. Se osserviamo però la redditività delle imprese in relazione al tipo di attività intrapresa, si rileva che la migliore marginalità è conseguita dal ristretto insieme di aziende che condivide in CdA i temi di gestione dei rischi. “C’è una relazione biunivoca tra governance d’impresa e gestione dei rischievidenzia il Presidente di Cineas, Massimo Michaud.

I rischi più rilevanti sono quelli legati ad un obbligo legale: ovvero sicurezza sul lavoro e responsabilità civile da difettosità del prodotto. “Si tratta di una conferma – ha commentato Gabriele Barbaresco, Direttore dell’Ufficio Studi di Mediobanca  rispetto alle precedenti edizioni. Stabile anche il cyber risk,seguito da danni ambientali e dai rischi legati a eventi catastrofali naturali. In coda i rischi geopolitici, quelli da imitazione e contraffazione e legati al reperimento e ritenzione delle competenze professionali”. 

 

Quest’anno appare un’accresciuta rilevanza attribuita alle catastrofi ambientali: “Probabilmente i fenomeni meteorologici estremi – spiega Barbaresco – e le loro conseguenze stanno divenendo un fattore che con sempre maggiore frequenza incrocia il vissuto delle aziende e con i quali esse sono chiamate quindi a fare i conti in maniera sempre meno episodica”.

 

I rischi legati alle normative (sicurezza sul lavoro e difettosità del prodotto) sono tendenzialmente ai primi posti per tutti i tipi di aziende; diverso l’andamento di rischi specifici che in base alle peculiarità delle aziende scalano la graduatoria. Ad esempio, i rischi geopoliticiche figurano in coda al ranking generale, sono in realtà percepiti con urgenza dalle imprese che hanno una catena di fornitura e vendita a maggiore proiezione internazionale. I rischi relativi al reperimento e ritenzione delle competenze professionali, anche questi apparentemente poco rilevanti se si guarda alla classifica generale, ricevono una maggiore attenzione da parte delle imprese che operano in settori ad elevata tecnologia per le quali la qualità professionale delle risorse assume valenza strategica.

Il rischio di imitazione del prodotto è maggiormente percepito nelle imprese del B2C rispetto a quelle del B2B; da ultimo, il rischio finanziario, nella accezione di mancato ottenimento del credito è in cima alle preoccupazioni delle imprese che appartengono alle classi di merito creditizio più basse, mentre tocca solo marginalmente quelle che possono contare su una struttura patrimoniale e finanziaria molto solida.

 

AUTORI E PARTNER DELLA RICERCA: OSSERVATORIO SULLA DIFFUSIONE DEL RISK MANAGEMENT NELLE MEDIE IMPRESE ITALIANE.L’indagine – realizzata annualmente da Cineas  in collaborazione con l’Ufficio Studi Mediobanca – nel 2019 è condotta con i seguenti partner: la Compagnia Assicurativa Helvetia  e la Società di brokeraggioMansutti – con una GOLD Partnership  la Società peritale C&P e le Compagnie Assicurative HDI Assicurazioni  e Reale Mutua.

 

APPROFONDIMENTI

 

IL CODICE DI AUTODISCIPLINA: cos’è, a cosa serve e per quale motivo poche aziende “virtuose” lo utilizzano. Le aziende dotate di un codice di autodisciplina sono maggiormente evolute in tema di Governance del rischio. Definendo Codice di autodisciplina come “Un insieme di principi e raccomandazioni per un sistema di governo societario evoluto, che preveda un corretto bilanciamento delle deleghe e delle responsabilità attribuite all’interno degli Organi di governo dell’impresa, tenendo conto anche degli interessi della famiglia”, (definizione tratta da https://www.aidaf.it/codif/), vediamo che quest’ultimo viene adottato dal 26,7% delle imprese. Tali aziende hanno dimensioni mediamente superiori rispetto a quelle che ne sono prive (fatturato medio di 71,4 milioni di euro), con una quota partecipativa della famiglia più diluita, maggiore numerosità dei board (4 membri) e un numero di consiglieri indipendenti in seno al Cda più elevata (10,5% vs 5,4%). I motivi che inducono le imprese familiari a disciplinare la propria governance mediante un Codice sono essenzialmente riferibili all’esigenza di un miglior tracciamento degli iter decisionali, di una più chiara attribuzione delle responsabilità (75,9% delle imprese), una più efficace separazione delle funzioni (62,7%) e l’introduzione di più elevate quote di collegialità (38,6%).


RISCHIO REPUTAZIONALE: LE CAUSE E I METODI DI CONTENIMENTO. 
Un rischio che è stato analizzato approfonditamente è il rischio reputazionale, considerato come rischio derivato, ovvero intrinseco ai vari profili autonomi esaminati. Le imprese individuano nel rischio di difettosità del prodotto quello in grado di scatenare il maggiore pregiudizio reputazionale (85,6% delle imprese), seguito dagli infortuni sul lavoro (50,5%), dai danni ambientali (44,1%) e dal cyber risk (35,1%). “In generale – spiega Gabriele Barbaresco  hanno grande portata reputazionale tutti i rischi i cui sinistri sono associati a superficialità e impreparazione delle aziende nella conduzione della propria attività”.

CYBER RISK: L’EDUCAZIONE DEL PERSONALE È UNA DELLE MAGGIORI LEVE STRATEGICHE PER DIFERNDERSI DAGLI ATTACCHI. Il cyber risk è innanzitutto associato dalla grande maggioranza delle imprese al rischio di subire un fermo produttivo (79,3% delle imprese). La perdita di informazioni strategiche ha un’ampia rilevanza (45%) quasi equivalente alla perdita di informazioni coperte da privacy (42,4%). Per quanto riguarda le iniziative delle imprese per il contenimento del rischio, nel 92,2% vengono adottati sistemi di firewall aziendali; apprezzabile il dato dell’80% di imprese che si occupano di educare adeguatamente il personale per difendersi dagli attacchi, mentre appena il 7,1% delle imprese ricorre alla copertura assicurativa.

L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE FORNITURE. Un dato strutturale interessante, e relativamente poco conosciuto delle medie aziende di proprietà familiare, riguarda la loro internazionalizzazione, non tanto sul versante delle esportazioni, tema ampiamente noto, quanto su quello delle forniture. Se da un lato il 93% delle medie imprese vende propri prodotti all’estero, il 91% di esse acquista input o beni intermedi dall’estero. Perché avvalersi di fornitori stranieri?Le motivazioni riguardano più frequentemente la natura dei prodotti che non quella dei produttori e toccano solo marginalmente la qualità. Quindi, si acquistano all’estero prodotti non reperibili in Italia (per il 58% delle imprese) o che in Italia sono più costosi (42,3%), mentre non si cerca all’estero maggiore qualità (solo il 14,2% delle aziende). Per un’impresa su quattro (26,3%) il fornitore straniero offre maggiori garanzie di continuità (regolarità e durata del rapporto).

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