Quale futuro per il Sistema Sanitario del nostro Paese… Non è possibile avere una sanità di qualità a basso costo: diversificare le fonti di finanziamento per adeguare il nostro sistema sanitario ai nuovi bisogni di cura… - Il Broker.it

Quale futuro per il Sistema Sanitario del nostro Paese… Non è possibile avere una sanità di qualità a basso costo: diversificare le fonti di finanziamento per adeguare il nostro sistema sanitario ai nuovi bisogni di cura…

La progressiva contrazione della capacità del sistema sanitario italiano di dare effettiva attuazione ai principi di universalismo ed equità sui quali è stato ri-fondato all’inizio degli anni 70 è oggetto di ampia convergenza tra tutte le analisi (più o meno indipendenti) condotte in questi anni. Del resto, basta uscire dalla cerchia del “privilegio” a cui alcune categorie hanno diritto per toccare con mano quanto pesi sia in termini economici sia in termini sociali l’incessante crescita di una spesa sanitaria privata non intermediata attraverso strumenti (quali Fondi Sanitari ed Assicurazioni) in grado di gestirne l’accesso con modalità socialmente accettabili né regolamentata da parte di Istituzioni che finora hanno ritenuto più conveniente non occuparsene a livello legislativo per non doverne ammettere la necessità.

 
A questo proposito è importante considerare preliminarmente un dato oggettivo che trova conferma non solo nei lavori dei principali Istituti di Ricerca ma nelle valutazioni della stessa Ragioneria Generale dello Stato: il sistema sanitario italiano è sotto-finanziato. Questo dato incontrovertibile, tuttavia, non può essere utilizzato per rivendicare una presunta “straordinaria efficienza” del nostro Paese rispetto agli altri Stati Europei. La realtà sotto gli occhi di tutti è che il Fondo Sanitario Nazionale ha una dotazione insufficiente a fronteggiare il fabbisogno di salute degli italiani in continua espansione per effetto delle nuove terapie salvavita, dei farmaci innovativi, delle nuove tecnologie e dell’invecchiamento generale della popolazione. Campanilismi, sprechi e malaffare creano inoltre gravi sacche di inefficienza e ampi buchi nella rete che riducono ulteriormente le risorse a disposizione. In altri termini, rispetto alla media europea, inclusi quindi Paesi come la Francia, l’Italia dispone di meno finanziamenti per curare i propri cittadini in un contesto in cui il bisogno di assistenza, peraltro, è in continua espansione. Nell’ultimo decennio la crescita della spesa sanitaria pubblica nel nostro Paese è stata pari ad un quarto (1,0% medio annuo contro il 3,9%) rispetto a quella dei Paesi dell’EU14. L’effetto più evidente a livello economico di questa politica di de-finanziamento è stato il consolidarsi di un gap strutturale tra la spesa pubblica pro capite dell’Italia e quella degli Stati dell’Europa Occidentale che attualmente si attesta al 36% (con una crescita del 2,9% solo nell’ultimo anno). L’ampliarsi di questo gap, peraltro, ha corso parallelamente a quello relativo al PIL pro capite che attualmente si attesta al 22,7% (con una crescita del 13,9% nell’ultimo decennio). In linea con i Paesi dell’UE14, invece, la crescita della spesa sanitaria privata (2,1% annuo contro il 2,3%) con un‘incidenza rispetto al PIL, pertanto, superiore a quelle riscontrabile a livello europeo. Proprio questo dato evidenzia come la spesa sanitaria privata nel nostro Paese complementi fondamentalmente la spesa sanitaria pubblica peraltro anche in uno scenario macro-economico di crisi. Nel contempo il fatto che la spesa sanitaria privata abbia ormai un’incidenza del 24,4% della spesa sanitaria totale acclara come già oggi non esista più una “supremazia” del servizio pubblico in sanità e che il nostro sistema sanitario è già, nei fatti, un sistema multi-pilastro. In quest’ottica bisogna osservare che l’argomentazione di alcuni commentatori relativa alla presunta induzione di ulteriore spesa privata quale conseguenza dell’introduzione di un Secondo Pilastro istituzionalizzato, sulla scorta del modello francese, non trova riscontro nei numeri. Attualmente si può dire che i cittadini italiani già ricevano il 75% delle proprie cure attraverso il Servizio Sanitario Nazionale ed il 25% delle stesse pagandole direttamente di tasca propria (del resto, non dimentichiamolo, l’incidenza della spesa sanitaria privata intermediata sulla spesa sanitaria totale è solamente del 13%). Il vero tema da affrontare al riguardo è se si voglia restituire una “dimensione collettiva” a questa spesa che oggi ciascuna famiglia affronta esclusivamente in base alle proprie disponibilità economiche ed indirizzarla a finalità coerenti e complementari con la promozione della salute pubblica. In altre parole se si vuole restituire le quote di universalismo e di equità che il nostro Servizio Sanitario Nazionale ha visto in questi anni “cannibalizzare” dalla spesa sanitaria privata bisogna sviluppare una seconda gamba del sistema sanitario incardinata sui medesimi principi (e, quindi, aperta a tutti i cittadini) ed inserita organicamente nella programmazione nazionale e territoriale. Si tratterebbe, in altre parole, di evolvere il nostro sistema sanitario verso un paradigma molto vicino a quello francese che prevede ad integrazione del sistema di base un sistema di assicurazione sociale diffusa, finalizzato a ridurre l’incidenza delle spese sanitarie rimaste a carico dei cittadini redistribuendone i costi tra i cittadini con un’impostazione più equa e progressiva.
 
Una seconda riflessione poi, sempre relativa al significativo contenimento della spesa sanitaria pubblica conseguito dal nostro Paese, deve essere sviluppata in relazione agli strumenti adottati per ottenere tale risultato (si pensi in particolare ai Piani di Rientro ed ai vincoli previsti dal Patto per la Salute). In particolare ci si riferisce al rischio che una generalizzata posticipazione degli investimenti, pur migliorando la situazione contabile nel breve periodo, possa determinare problemi a medio termine, per effetto – ad esempio – dell’obsolescenza delle strutture e delle tecnologie o della scarsità di risorse stanziate per la promozione delle salute. In questa direzione, del resto, si susseguono segnali non proprio incoraggianti sul fronte degli outcome aggregati (si vedano, tra gli altri: la riduzione dell’aspettativa di vita, l’incremento della mortalità al Sud, l’incidenza di fattori di rischio modificabili, la prevenzione etc). Bollare tale esigenze come “consumismo sanitario” significa ignorare il contributo straordinario che il progresso scientifico e tecnologico può portare per la salute dei cittadini come del resto la capacità dei percorsi di prevenzione e diagnosi precoce di garantire un miglioramento degli indicatori relativi alla vita (maggiore sopravvivenza dei cittadini), alla salute pubblica ed alla sostenibilità finanziaria (del sistema sanitario nel suo complesso).

Tra le motivazioni che ci rendono coì “efficienti” rispetto agli altri Paesi dell’UE14, infatti, c’è l’assoluta marginalità nel budget del Servizio Sanitario Nazionale della prevenzione delle patologie croniche (vale meno di 1 mld/annuo) che oggi, come noto, rappresentano nell’86% dei casi la causa di decesso nei Paesi Occidentali. Come mostra infatti il Grafico 1, del 4,2% di spesa sanitaria totale che il nostro Paese dichiara di destinare alla prevenzione oltre l’80% viene impiegato per il finanziamento di funzioni diverse dal contrasto delle Malattie Croniche Non Trasmissibili. La stessa spesa complessiva destinata alla prevenzione in Italia, se rapportata a ciascun cittadino, risulta in ogni caso inferiore del 22% di quella della Germania, del 17% di quella della Svezia e del 32% di quella dei Paesi Bassi e ci colloca dopo Paesi come Turchia, Messico e Corea. Il modello di cura del nostro Servizio Sanitario Nazionale è in modo assolutamente prevalente incentrato su curare piuttosto che prevenire, con gravi conseguenze anche in termini di diagnostica e di trattamento. Si stima che il 50% dei diabetici non sia a conoscenza della propria condizione. Tra questi, il 50% presenta un metabolismo insufficiente e un controllo non accurato dei lipidi e della pressione arteriosa, anche se circa l’80% dei diabetici muore a causa di malattie di natura cardiovascolare: tali decessi potrebbero in larga misura essere limitati grazie ad un’appropriata tempistica della diagnostica e un adeguato trattamento medico e farmacologico.

Grafico 1 – La spesa totale in prevenzione nei Paesi EU14 (% spesa sanitaria) 2014 e dettaglio Italia per sottocategorie di spesa VEDI ALLEGATO
Peraltro se da questa voce complessiva si isola l’ammontare pro capite di tale dotazione che viene rivolta alla prevenzione alle persona di ciascun cittadino risultano poco meno di 21 Euro a testa (€ 20,66), totalmente insufficienti a far fronte anche a protocolli di prevenzione di base come quello per i rischi cardiovascolari (che fa registrare a livello nazionale un costo medio di 120 Euro) e per i rischi oncologici (costo medio di 167 Euro). Appare evidente che, senza una diversificazione delle fonti di finanziamento, ovvero senza l’avvio di un Secondo Pilastro Sanitario strutturato e diffuso a tutti i cittadini, al di là di qualsiasi policy promossa a livello statale i protocolli di prevenzione rischiano di rimanere inattuati in favore dei cittadini, costringendo il nostro Sistema Sanitario a caricarsi di oneri ben maggiori nel moneto dell’insorgenza effettiva delle patologie non contrastate.
 
Un’ulteriore area di riflessione riguarda poi la correlazione tra la correlazione riscontrabile tra la minore capacità di spesa e gli outcome clinici e demografici generati dai diversi Sistemi Sanitari Regionali che amministrano attualmente la nostra sanità pubblica. Se si analizzano infatti il tasso di mortalità standardizzato dei cittadini italiani per ripartizione (ovvero per ciascuna area territoriale) e lo si mette a confronto con l’entità della spesa sanitaria totale pro capite di ciascuna Regione, si può agevolmente rilevare come ad una spesa sanitaria inferiore corrisponda una maggiore mortalità (cfr. Grafico 2 e Grafico 3).
Grafico 2 – Tasso di mortalità standardizzato per ripartizione VEDI ALLEGATO
Grafico 3 – Spesa sanitaria totale pro capite per ripartizione VEDI ALLEGATO
 

Tale correlazione, peraltro, è riscontrabile anche su altri indicatori fondamentali collegati direttamente allo stato di salute dei cittadini. Una testimonianza particolarmente significativa al riguardo può essere fornita con riferimento al dato della speranza di vita a 65 anni senza limitazioni che misura, di fatto, la capacità di una “vecchiaia” in autonomia e buona salute. Anche in questo caso, infatti, nelle aree geografiche in cui la spesa sanitaria totale pro capite è maggiore si assiste ad una minore incidenza dei casi di non autosufficienza della popolazione anziana.

 

 
Alla luce degli argomenti fin qui illustrati quindi l’asserita “economicità” del sistema sanitario italiano non appare propriamente come una virtù. Al riguardo, peraltro, bisognerebbe considerare che il sotto-finanziamento del sistema alimenta altresì anche una disuguaglianza di natura territoriale che scava un solco sempre più ampio tra i cittadini italiani in base alla propria Regione di residenza.
E’ per questi motivi che una valutazione più equilibrata e consapevole del modello francese, come del resto di quello tedesco, non può che portare a concludere che a fronte di più elevati livelli di spesa tali sistemi abbiano potuto finanziare maggiori investimenti in tecnologie, prevenzione e gestione della non autosufficienza garantendo una maggiore qualità assistenziale ai cittadini.
 
I problemi sono sotto gli occhi di tutti e le possibili soluzioni devono essere identificate, ferma restando naturalmente la coerenza con il nostro impianto costituzionale, in modo concreto evitando di rinunciare aprioristicamente ad alcuni strumenti, come i Fondi e le Polizze Sanitarie, bollandoli aprioristicamente come “discriminanti o selettivi”. Il punto non sono gli strumenti, ma le policy entro le quali gli stessi sono chiamati ad operare. Alcune delle criticità ascrivibili oggi alla Sanità Integrativa, non dimentichiamolo, sono il portato di una legislazione così preoccupata di limitare il campo di azione di tali strumenti dal finire a renderli disponibili prevalentemente ad una sola categoria di cittadini (i lavoratori dipendenti), privando tutti gli altri di un’importante opportunità di accesso alle cure.
 

Se poi il problema, come alcuni commentatori dicono, è quello di una fiscalità agevolata, che ad oggi in relazione alle polizze sanitarie ha un costo di poco più di 500 milioni (meno di 700 milioni volendo considerare anche i fondi sanitari autoassicurati), eliminiamo pure i benefici fiscali ma rendiamo disponibile per tutti i cittadini un Secondo Pilastro Sanitario. Ritengo infatti che se, come dimostrano i numeri, esiste uno strumento (la Sanità Integrativa) che è in grado di abbattere in media del 56% la spesa sanitaria di tasca propria di tutte le famiglie italiane restituendo al sistema sanitario maggiore accessibilità ed equità sia davvero singolare rinunciarvi per “risparmiare” una somma (quella corrispondente al beneficio fiscale) che non vale poco meno dell’1,5% dell’intera spesa sanitaria privata e corrisponde a poco meno dello 0,5% della spesa sanitaria pubblica.

In questo contesto, mi si permetta una provocazione, si potrebbe anche superare il meccanismo delle agevolazioni fiscali per la Sanità Integrativa, reinvestendo questi 500 – 700 milioni per impegnare i MMG e le ASL nella promozione della Sanità Integrativa presso i pazienti con l’obiettivo di avere a 5 anni un Secondo Pilastro Sanitario disponibile come in Francia all’90% della popolazione. Per la quota residua di cittadini, poi, si potrebbe valutare pure forme di assicurazione sociale – anche qui, già previste nel modello francese –per la popolazione meno abbiente e/o “non assicurabile”, così da non lasciare indietro nessuno per davvero e non solo sulla carta. In realtà, ed è bene che i decision makers siano ben informati al riguardo, il problema principale dell’attuale regime tributario della Sanità Integrativa non è legato all’entità della deduzione su premi/contributi quanto alla disponibilità di tali benefici a tutti i cittadini italiani e non più ai soli lavoratori dipendenti.
 
Attualmente milioni di italiani sono costretti a rinunciare ad una o più prestazioni sanitarie voglio perdere il focus di questo contributo entrando nell’annoso dibattito se siano 5 milioni, 10 milioni o 13,5 milioni perché a mio avviso la sostanza non cambia; l’esistenza di questo fenomeno infatti, di per sé, è già uno di quei sintomi preoccupanti che richiamavo poc’anzi di un sistema sempre più affetto da disuguaglianza e disparità. Sempre a questo riguardo, peraltro, è importante chiarire che le prestazioni rinunciate o differite non sono certo, come alcuni commentatori vorrebbero farci credere, inappropriate o di scarso valore (low value), anche perché peraltro in un contesto macro-economico sostanzialmente recessivo sarebbe davvero singolare che si innestassero fenomeni di progressivo “consumismo sanitario”. Non a caso dalle indagini condotte dal Censis risulta come tende a consolidarsi un carattere regressivo della spesa sanitaria di tasca propria. E’ necessario, quindi, prendere atto che esiste una quota crescente, peraltro decisamente eterogenea in termini reddituali e disomogenea a livello territoriale, di cittadini che non riesce più ad accedere alle prestazioni previste teoricamente dai Livelli Essenziali di Assistenza. Nel contempo si è generato un fenomeno crescente, questo sì di natura sostitutiva rispetto al Servizio Sanitario Nazionale, di accesso alle cure attraverso il finanziamento diretto del cittadino necessario a bypassare le crescenti liste di attesa (sono oltre 31,6 milioni gli italiani che nell’ultimo anno hanno dovuto far ricorso a prestazioni sanitarie a pagamento per ridurre i tempi di attesa, fonte Censis 2016), recarsi in Regioni con qualità sanitaria più elevata (sono oltre 2 milioni nell’ultimo anno gli italiani protagonisti di fenomeni di migrazione sanitaria, fonte Censis 2016), adozione di percorsi di cura tecnologicamente più avanzati che di anno in anno sospinge la crescita della spesa sanitaria privata che ormai si appresta a raggiungere quota 40 miliardi.

I conti sulla salute dei cittadini vanno fatti con attenzione e soprattutto non possono alimentare populismi o strumentalizzazioni.  Prendendo atto, con responsabilità ed onesta intellettuale, della situazione appena descritta appare chiaro come le soluzioni da noi prospettate non solo non aggraverebbero ulteriormente il fabbisogno sanitari del nostro Paese ma anzi potrebbero fornire un contributo determinante per “intermediare”, in una prospettiva sociale, una spesa sanitaria privata oggi totalmente priva di governance assicurando ai cittadini prestazioni sanitarie di qualità più elevata, percorsi assistenziali integrati e costi sostenibili. Se il Secondo Pilastro Sanitario in Italia diventasse obbligatorio come in Francia o quanto meno “opzionabile” come in Germania (anche su quest’ultimo scenario, sotto il profilo quantitativo, faccio integralmente rinvio all’estratto allegato), si potrebbe peraltro garantire anche una maggiore accessibilità alle cure per i cittadini italiani ponendo rimedio strutturalmente, e senza ulteriore spreco di risorse pubbliche, al problema del razionamento implicito dell’assistenza sanitaria e delle liste di attesa che da tempo affligge il Servizio Sanitario Nazionale.

Marco Vecchietti

Consigliere Delegato RBM ASSICURAZIONE SALUTE S.p.A.

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